Ci sono esperienze, nella vita, che segnano uno spartiacque perchè dopo averle vissute, diventiamo persone diverse. È quello che è successo ad Ester Percossi, maresciallo della Polizia municipale di Aprilia, sopravvissuta al naufragio della Costa Concordia la sera del 13 gennaio 2012, che costò la vita a 32 persone. Era a bordo della nave in compagnia della mamma e della figlia Lucrezia. Le abbiamo chiesto di raccontarci la sua storia.
Ester tu sei, fortunatamente, tra i sopravvissuti del naufragio della Concordia. Perché ti trovavi a bordo della nave?
“Su quella nave mi trovavo per caso, perché inizialmente per la crociera dovevano partire mia madre, una sua amica e mia figlia. All’ultimo momento però, l’amica di mia mamma ha disdetto il viaggio e io ho deciso di sostituirla. Ho pensato che una settimana di vacanza non mi avrebbe fatto per niente male. Evidentemente il destino ha voluto che io facessi questa scelta. Per fortuna sono partita perché da casa sarei morta all’idea di sapere mia madre e mia figlia nell’inferno del naufragio.”
Da quale porto sei partita?
“Essendo io di Aprilia, mi sono imbarcata a Civitavecchia, da dove sono partita intorno alle 19.00.“
Alle 21.45, la tua crociera si interrompe drammaticamente. Cosa stavi facendo al momento dell’impatto?
“Ero al ponte 4, al ristorante “Milano”, perché avevamo da poco iniziato a cenare. Ricordo con esattezza che, nel tavolo dietro al mio, c’erano Maria Grazia Trecarichi e Luisa Virzì, che avevo conosciuto poco tempo prima e che, purtroppo, non ce l’hanno fatta a sopravvivere al naufragio.“
Ti sei accorta subito che era successo qualcosa di grave?
“Quando è tornata la luce, che era andata via al momento dell’incidente, io e mia madre ci siamo guardate con gli occhi sgranati e abbiamo subito capito che la situazione era non grave ma gravissima. L’urto era stato molto violento e ho avuto la percezione immediata del pericolo.
La prima cosa che abbiamo fatto è stata cercare di raggiungere la parte esterna al ristorante, il ponte 4. Ricordo che non riuscivamo ad alzarci perché per terra c’era di tutto: acqua, vino, olio, piatti e bicchieri rotti, persone una sull’altra. L’urto era stato talmente violento che si erano staccate dalle pareti anche i portastoviglie. In un attimo tutto è piombato a terra e stare in piedi era letteralmente impossibile, scivolavamo su qualsiasi cosa. Nel cadere, molte persone tagliavano sui vetri rotti. Io , mia madre e mia figlia ci tenevamo per mano, ci alzavamo e ricadevamo di continuo finché con enorme fatica siamo riuscite a raggiungere il ponte dove si trovavano le scialuppe. Lì trovammo dei contenitori di ferro con i giubbotti di salvataggio che vennero presi letteralmente d’assalto. In quel momento non esisteva la legge di dar precedenza al più debole, come ai disabili, alle donne, ai bambini, c’erano solo persone che volevano salvarsi. Nessuno ha rispettato il codice primario delle fasi di salvataggio, ognuno badava a sé, l’istinto di sopravvivenza ci ha fatto fare cose allucinanti. Ci tiravamo i capelli, i vestiti. Il panico di quattromila persone allo sbando era qualcosa di ingestibile. Non c’erano regole, leggi, non vi era alcun tipo di ausilio.”
Tu avevi fatto le esercitazioni previste per i passeggeri ?
“Assolutamente no. Ero partita alle 19 , due ore prima dell’impatto. L’esercitazione per chi si era imbarcato a Civitavecchia era prevista per il giorno successivo, il sabato. Io non conoscevo nulla della nave.“
Le comunicazioni ufficiali da parte dell’equipaggio vi danno notizia di un blackout a bordo.
“Noi abbiamo capito da subito che la realtà delle cose non c’entrava nulla con quello che ci comunicavano dagli altoparlanti .La nave era inclinata, noi immediatamente dopo l’impatto abbiamo fatto fatica a stare in piedi. Ma come si faceva a credere alla storia del guasto elettrico? Una nave di quella stazza per essere inclinata che cosa contiene se non acqua?
C’è stato solo un momento in cui abbiamo pensato che il blackout potesse essere vero perché la nave quando è passata ad inclinarsi da un fianco all’altro, per pochi minuti è rimasta in asse. L’illusione è durata pochissimo. Man mano che il tempo passava facevamo sempre più fatica a reggerci.“
Riesci a raggiungere il tuo punto di ritrovo, la muster station, abbastanza presto.
“Sì, il problema però è stato che non ci facevano salire sulle scialuppe, che erano chiuse. Davanti a noi vedevamo i camerieri che fino a poco prima ci servivano al tavolo, che non ci facevano assolutamente avvicinare alle imbarcazioni. Non potevamo scendere dalla nave se prima non arrivava l’ordine di evacuazione da parte del Comandante. Nessuno dei passeggeri capiva come mai non potessimo abbandonare la nave e in quei frangenti qualcuno, preso dal panico, si è buttato in mare. Alcuni sono morti in questo modo. Sinceramente anche io e mia figlia eravamo pronte a buttarci quando vedevamo che l’inclinazione della nave aumentava, non volevo aspettare la morte a bordo. Mia madre, che invece non sa nuotare, ci urlava di non buttarci.“
Hai avuto paura di non farcela?
“Certo, la percezione della morte era netta. Io ho chiamato i carabinieri quasi subito e ho detto che stavamo affondando : “Aiutateci”, ripetevo, “non so se vivrò o morirò”.
Chiamai anche il 113 e una donna mi chiese dove fossimo: “Signora, guardi fuori, cosa vede?” Nel caos generale mi accorgo che ci sono delle luci a breve distanza dalla nave, è quello il momento in cui capisco che siamo vicini alla costa. In ogni caso urlo di fare presto perché lì stavamo morendo tutti.“
Ci sono state scene di solidarietà in quei momenti tra i passeggeri?
“Macché, nessuna solidarietà, solo tanta voglia di salvarsi. Ma era comprensibile, non condanno nessuno. Era una situazione di forte disagio, di grande sbandamento mentale, la legge normale non è valsa, c’era solo necessità di trovare il modo per sopravvivere e basta. Nessuno era in sé , indipendentemente dal sesso o dall’età. Ho visto uomini completamente disperati piangere appoggiati ai muri.Erano poche le persone lucide, io ero una di quelle. Sono rimasta fredda, non ho urlato, ho cercato di rimanere presente a me stessa e di fare quello che potevo. Probabilmente il mio lavoro, in quel momento, mi ha aiutato a contenermi. Ad un certo punto ho visto un signore che parlava al telefono, mi sembrava un tipo molto lucido , gli dico: guardami in faccia, tu sai quello che sta succedendo! Avevo gli occhi sgranati, gli dico che sono un vigile urbano, che non doveva mentirmi perché ero perfettamente cosciente e volevo sapere. Lui era un militare che aveva avuto notizie certe. Mi disse: “Guarda, la nave sta affondando, stai vicina a tua madre e a tua figlia ma non farti accorgere di nulla. Cerca di rimanere fredda”. Da allora i momenti che mi separarono dalla salvezza furono interminabili. Il pensiero di non farcela era costante.”
Finalmente riuscite a salire sulla scialuppa che significherà la vostra salvezza.
“Sì, per fortuna verso le 23.30 riusciamo a salire sulla nostra scialuppa. Appena sento il tonfo dell’acqua dico: ok, siamo in mare. Il problema era che i membri dell’equipaggio non erano ben addestrati alla conduzione di queste imbarcazioni a motore, tanto che la nostra scialuppa è stata messa in moto e portata al Giglio da un naufrago. Arrivata sul molo del porto ho capito che ce l’avevamo fatta, eravamo salve e lì ho iniziato a piangere. Mi sono inginocchiata per baciare in terra e ho chiamato subito mio marito.“
Che hai provato quando hai visto la nave dall’isola?
“Vedere da lontano la nave illuminata e piegata è stata un’impressione incredibile. Mi ha dato la percezione di quello che avevamo rischiato, ho capito fino in fondo quanto grande fosse stato il pericolo di ritrovarci addosso quel gigante. Sai quante volte ho sognato la nave inclinata? Quell’immagine rimarrà un ricordo indelebile.“
Che ricordi hai dell’accoglienza dei gigliesi?
“La cosa che mi è rimasta impressa è la presenza sul molo di tante donne che ci venivano incontro.
Le persone ci portavano cose calde per coprirci perché avevamo abiti leggerissimi e faceva molto freddo. Al Giglio tutto ha funzionato perfettamente, grande efficienza della macchina dei soccorsi. Io, mia mamme mia figlia, siamo state fatta entrare in chiesa e lì il sacerdote, per coprirci, ci ha di tutto. In chiesa parlavamo lingue diverse perché sulla nave c’erano persone provenienti da tutto il mondo. La chiesa era diventata come un grande raduno dei sopravvissuti. Le donne del Giglio ci portavano da mangiare tutto quello che avevano nelle case, sono state per noi come delle mamme. Il latte per i neonati veniva preso nelle farmacie che, nel frattempo, erano state aperte. Ricordo che a dormire mi portarono nella parte alta dell’isola, a Giglio Castello, ospite insieme ad altre 500 persone di un asilo. I gigliesi sono stati stupendi, ci hanno aperto le loro case, ci hanno dato tutto ciò che potevano, abbiamo trovato un’umanità meravigliosa che è stata la cosa che più ci ha scaldato. A distanza di un anno, quando sono andata sull’isola per l’anniversario del naufragio, gli abitanti ancora piangevano, ci dicevano di tornare a trovarli.“
Quanto tempo sei rimasta sull’isola?
“Una notte. Ricordo che quando la mattina successiva abbiamo percorso la strada che dall’asilo ci riportava verso il porto è stato un momento terribile. Eravamo tutti in religioso silenzio e alla vista della nave abbiamo preso coscienza dell’enorme tragedia che si era consumata. La percezione della gravità della cosa è stata poi ancora più netta quando siamo arrivati con il traghetto a Porto Santo Stefano. È stato lì che abbiamo saputo che c’erano stati dei morti, che abbiamo visto un’infinità di persone, giornalisti, volontari, medici. Ci hanno visitato, schedato più volte e ci hanno chiesto una cosa che, fino a quel momento, nessuno di noi aveva ancora avuto il coraggio di fare: toglierci i giubbotti di salvataggio. La cosa particolare che ha accomunato noi naufraghi, infatti, è stata quella di aver dormito con addosso il giubbotto salvagente. Nessuno lo ha mai tolto dal momento del naufragio fino all’arrivo sul continente la mattina dopo. Quando ci hanno chiesto di lasciarlo ci siamo tutti rifiutati, hanno quasi dovuto costringerci. Per noi quel momento è stato bruttissimo, sembrava quasi che ci stessero strappando le viscere, non riuscivamo a separarcene.“