
Quando frequentavo le medie, a Roma, i compagni di classe mi portavano il giornale con la notizia della separazione dei miei, lo mettevano sul banco. Non capivo perché lo facessero, ci rimanevo male.
Quante cattiverie hanno detto sul mio conto, solo perché sono figlio di Gigi D’Alessio, cosa di cui vado fiero. Se fossi stato figlio di un falegname, però, nessuno mi avrebbe accusato di favoritismi, nessuno mi avrebbe definito lo ‘schifo della società’. Ma seguire le orme del padre, anche nel mondo dello spettacolo, dovrebbe essere una cosa positiva. Perché siamo sempre etichettati come raccomandati?
Le parole di Luca D’Alessio fanno riflettere con forza su quanto sia ingiusto il peso dei pregiudizi. Essere “figlio di” non è una colpa, eppure spesso diventa un marchio, un bersaglio facile per critiche gratuite e cattiverie. Dietro quelle etichette, dietro i titoli di giornale, c’era un ragazzo che andava alle medie, che cercava semplicemente di crescere, di vivere la sua età come tutti gli altri. E invece si è ritrovato a dover fare i conti con la crudeltà di chi non conosceva la sua interiorità, ma solo il suo cognome.
C’è tanta amarezza nelle sue parole, ma anche una grande dignità: la fierezza di essere figlio di Gigi D’Alessio, un padre amato e stimato, e allo stesso tempo la consapevolezza che, se fosse nato in una famiglia diversa, forse non avrebbe dovuto subire tanto odio. La verità è che nessuno sceglie da chi nascere. Ma tutti, invece, possono scegliere cosa fare della propria vita, e Luca ha deciso di percorrere la strada della musica con le proprie gambe, mettendo cuore, sacrificio e autenticità.
Ci dimentichiamo troppo spesso che dietro a un nome famoso ci sono persone in carne e ossa, con fragilità, sogni, insicurezze, che soffrono esattamente come chiunque altro. Il bullismo, i giudizi taglienti, le parole dette per ferire lasciano cicatrici profonde. Ma chi le subisce, se riesce a non farsi piegare, spesso trova dentro di sé una forza nuova, che diventa carburante per trasformare la rabbia in arte, dolore in musica, incomprensione in autenticità.
Quella domanda finale, “Perché siamo sempre etichettati come raccomandati?”, è lo specchio di una società che fatica ad accettare la meritocrazia quando si intreccia con un cognome noto. Ma la verità è che il talento non si eredita come un titolo, si coltiva, si conquista con fatica, e chi non lo riconosce sceglie di restare cieco davanti all’impegno e alla passione.
Il coraggio di Luca sta proprio qui: nel non rinnegare le sue radici, ma nel rivendicare il diritto di essere sé stesso, al di là dei pregiudizi. E forse, proprio grazie a queste ferite, la sua musica può arrivare più forte, più vera, più vicina a chi ha vissuto l’ingiustizia del giudizio facile.
